L'ingegner Gadda va alla guerra
 
avant garde - di Allegra Albani
   
 

Il titolo stesso di questa sezione, Avant-Garde, non richiederebbe molte parole. Perché in se stesso concluso, in una definizione d’origine militare prestata alle menti saturnine di un movimento animato dalla generosa capacità di capovolgere e modificare la realtà attraverso la costruzione di un linguaggio in grado di dare senso alla modernità.
Essere avanti. In sostanza. Come l’avamposto di un esercito, il cui avversario non sono le milizie che vengono dietro e rispetto alle quali l’avanguardia s’intende avanzata, ma quello che le si trova di fronte. Un mondo inesplorato, in cui l’uomo prima, soldato poi, ora esploratore viene mandato in avanscoperta. Lasciando dietro a sé l’orizzonte della tradizione, pronto alla rivoluzione. E per compiersi una rivoluzione è di un rivoluzionario che si ha bisogno.
Come un novello Robespierre, Fabrizio Gifuni, in questi giorni, ha portato in scena, sul palco del più antico teatro romano, il teatro Valle, “l’Ingegner Gadda va alla guerra”, dalle pagine dei “Diari di guerra e di prigionia” di Carlo Emilio Gadda, nello spettacolo diretto da Giuseppe Bertolucci. L’attore, nella figura di uomo al fronte, muovendosi su una scena (o avan-scena) spoglia, ha portato lo spettatore a farsi una quantità di domande in un vorticoso turbinio di parole e fantastiche invenzioni lessicali. Con quell’atteggiamento arcaico di un pedagogo chiamato ad alfabetizzare le masse, come un moderno Platone dall’alto dell’Agorà. Con le luci accese in sala, l’uomo si è rivolto alla massa di ormai tele-spettatori parlando della psicosi collettiva, di priapismo erotico, che investe oggi, come all’epoca dell’autore del testo, la nostra società.
Ed è proprio nell’uso dei linguaggi del passato, che prende piede la forza eversiva di questo spettacolo. Che supera la comunicazione palliativa di tutte le forme di espressione artistiche contemporanee, per formulare un discorso di senso realmente autentico e formativo. In uno spazio di rappresentazione oramai desueto come il teatro, che, amleticamente, facendosi artefice di una finzione, smaschera le pieghe più inquietanti – e più vere – della realtà.
Contrariamente ai movimenti avanguardisti di debutto secolo, che allontanavano da sé la tradizione classica, per trovare significato della contemporaneità, oggi, è solo nel recupero straniato del linguaggio obsoleto e delle forme letterarie, nella ripresa della nozione di allegoria in senso ampio e nei rituali arcaici che può nascere, a mio avviso, un nuovo concetto di Avanguardia in continua contraddizione con se stessa, in lotta contro lo spettro della sua stessa impossibilità, nell’epoca della comunicazione scorrevole, fatta di uomini che, lontani da Amleto, e più vicini a Priapo, sono sempre in bilico tra tentazione e pena.

   
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