Giovani dei oggi e di ieri in piazza
Movimenti di protesta giovanili
da sempre chiave di svolta.
  politica - di Luisa Laurelli    
 

Le manifestazioni degli studenti di questi giorni fanno tornare alla mente le grandi manifestazioni del 1968, in Europa e nel mondo. Anche se ancora non vediamo folle oceaniche, né interlocuzioni con la poltica, con i sindacati, nei movimenti attuali si può osservare tanta fantasia e spontaneità.
Non so se per una forma di nostalgia, ma i giovani di allora mi sembravano più fortunati perché potevano guardare al futuro, cosa che oggi è oggettivamente più difficile.
Noi giovani di allora avevamo la certezza di poter cambiare il mondo, a partire dalla scuola, lottavamo per far riconoscere i diritti dei lavoratori, volevamo cambiare nel profondo la nostra società che non ci piaceva affatto.
“Studenti ed operai uniti nella lotta” gridavamo. Ed ancora “Ce n’est q’un debout continuons le combat”. Eravamo tanti nelle più grandi città d’Europa, a marciare sotto le bandiere della pace, a gridare slogan contro gli americani invasori del Vietnam, contro i regimi dittatoriali dei colonnelli greci, della Spagna, del Portogallo. Si viveva in piazza, nelle università occupate, si partecipava a manifestazioni e cortei oceanici, si discuteva di politica con l’anelito di cambiare tutto il mondo. Si lottava per sé stessi e per gli altri.
La scuola come era in quegli anni non ci piaceva, volevamo il diritto allo studio uguale per tutti senza differenze di classe, volevamo più cultura perché solo così i figli dei ceti popolari avrebbero potuto liberarsi dall’asservimento ai potenti. Tutti dovevano poter studiare in un mondo uscito da circa 20 anni da una guerra che lasciò solo macerie, lutti e distruzioni. Doveva finire la separazione tra liceo e scuole professionali, l’accesso all’università doveva essere garantito a tutti.

Avevamo i nostri cantautori: Fabrizio De Andrè, Ivan della Mea, Paolo Pietrangeli, i nostri attori come Dario Fo e Franca Rame, nasceva il femminismo con il suo slogan rivoluzionario “Io sono mia”, ad affermare il diritto all’autodeterminazione delle donne in un Paese in cui le donne avevano ottenuto il diritto al voto solo con la nascita della Repubblica.
Seguirono le grandi riforme dell’istruzione, della salute, del diritto di famiglia, ci furono le splendide vittorie ai referendum sulla legge sull’aborto e sul divorzio, in una Italia a forte impronta cattolica con i suoi ovvi condizionamenti. Nelle aule dei tribunali le donne venivano ancora processate per abbandono del tetto coniugale e le violenze contro di loro venivano giudicate ancora a difesa del codice d’onore. Tutto ciò oggi ci sembra medio evo eppure sono solo 50 anni che, grazie ad una storica sentenza della Corte Costituzionale, sono state abolite le gravi discriminazioni per l’accesso alle carriere pubbliche da parte delle donne, mentre ci vorranno ancora degli anni perché le stesse potessero entrare in magistratura. Si deve arrivare quasi al duemila, perché si consentisse l’ingresso delle donne nella carriera militare. La rivoluzione più grande del secolo scorso è stata proprio la conquista di spazi di libertà da parte delle donne e la nascita di servizi per alleviare il lavoro di cura.
Ma quello che caratterizzò in modo particolare la fine degli anni ’60, fu la presa della scena da parte dei giovani ed il loro collegamento con la classe operaia, con il lavoro, le sue regole, le sue conquiste (lo statuto dei lavoratori). Eravamo in rotta con tutti, ci fu una frattura generazionale che portò a grandi conflitti contro i genitori ed un mondo arcaico e patriarcale che non ci piaceva, eravamo contro le guerre e lottavamo perché finissero, così come successe quando il gigante americano fu costretto ad abbandonare il piccolo Vietnam.
Avevamo i nostri miti come Che Guevara, Fidel Castro, Mao Tse Tung.
Cantavamo le canzoni di Joan Baez e di Bob Dylan, le canzoni dei Beatles accompagnavano le nostre giornate con i loro ritmi innovativi e trasgressivi. Sì, eravamo fortemente trasgressivi!
Eravamo diversi anche nel vestire, tutti in jeans, con l’eskimo, gli scarponcini, gli zoccoli, le lunghe gonne a fiori, la borsa di Tolfa per maschi e femmine. Volevamo sentirci uguali, annullare le differenze di classe od economiche ma non ci sentivamo affatto omologati. Rifiutavamo i condizionamenti della pubblicità e spesso erano i vestiti usati quelli più indossati.
Eravamo contro il conformismo dilagante, le convenzioni sociali, il rispetto del potere e dei potenti. Eravamo fuori dai partiti e li contestavamo, ma eravamo intrisi di “politica” intesa quale strumento di cambiamento e di riscatto dei deboli e degli oppressi.
E’ rimasto mitico il raduno di Woodstock nell’America delle persecuzioni razziali con il mito di Martin Luter King, dove gli hippy di mezzo mondo si radunarono a migliaia (furono circa un milione), riuniti per partecipare ad un festival dove suonarono 36 tra musicisti e gruppi rock, nato in realtà come un modesto festival di provincia che durò, contro le previsioni, un giorno in più di quanto preventivato. Era stato preso in affitto un terreno con l’idea di contenere alcune migliaia di persone e si dovette estendere il concerto ai campi limitrofi, per tentare di contenere un afflusso imprevisto di centinaia di migliaia di giovani. La facilità con cui si poteva accedere al prato eludendo la (scarsa) sorveglianza, insufficiente per un’area così estesa e poco presidiabile, e l’invasione di massa che si realizzò, costrinse gli organizzatori a rivedere l’idea di far entrare al festival solo chi aveva il biglietto: Woodstock divenne gratuito, mentre le speranze di pareggiare le spese si volsero alla produzione di un film e di un disco live.
“Tre giorni di pace e musica”, promettevano i manifesti che pubblicizzavano un festival di provincia da tenersi a Woodstock, nella contea di Ulster, stato di New York. Un concerto a pagamento come tanti, che però rischiò di tramontare quando le proteste della cittadinanza costrinsero le autorità a negare l’autorizzazione. Tanto che ci si dovette spostare in un’altra zona, pur mantenendo fissa la denominazione originaria.
Dopo un emozionatissimo Richie Havens che, afferrato il microfono, intonò con voce tremante la sua “Freedom”, s’alternarono decine di artitsti quali: Richie Havens, Sweetwater, Bert Sommer, Tim Hardin, Ravi Shankar, Melanie, Arlo Guthrie, Joan Baez, Quill, Country Joe McDonald, John Sebastian, Keef Hartley Band, Carlos Santana, Incredible String Band, Canned Heat, Grateful Dead, Creedence Clearwater Revival, Janis Joplin, Sly and the Family Stone, The Who, Jefferson Airplane, Joe Cocker, Country Joe and the Fish, Leslie West, Mountain, Ten Years After, The Band, Johnny Winter, Blood, Sweat and Tears, Crosby Stills Nash & Young, Paul Butterfly Blues Band, Sha Na Na, Jimi Hendrix. Essi affascinarono quella moltitudine giovane e determinata proveniente da ogni parte, che sembrava capace di superare le inumanità cittadine mantenendosi pura nei rapporti interpersonali, e di confrontarsi apertamente con i concetti problematici di modernità e gerarchia.
A Woodstock seguì l’anno dopo l’altro grande, mitico concerto all’isola di Wight con Joe Cocker, Jimi Hendrix e tanti altri.
Il fenomeno del ’68 cambiò effettivamente tante cose nelle evolute società occidentali, nei costumi, nei rapporti tra generazioni, tra diversi, tra uomini e donne, tra stranieri ed autoctoni, nella religione cattolica e nei rapporti con le altre religioni, con la politica ed il sindacato, con le Istituzioni dove vennero approvate importanti leggi di riforma, dalla scuola alla sanità, alla psichiatria.
C’è da sperare che oggi, in un mondo che ha perso i valori di solidarietà, dove imperversano qualunquismo e prepotenza, siano di nuovo i giovani a doversi “rimboccare le maniche” per cambiare, per restituire dignità e futuro al nostro paese. Sempre che gli adulti sappiano ascoltare e lasciare spazi effettivi per poter agire.

   
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