Pugni al cielo
Thomas C. Smith e John Wesley Carlos,
miti oltre lo sport.
  sport - di Daniele Leggieri    
 
I numeri sono buoni indicatori della realtà..spesso…non sempre…: era il 1968, 19esima edizione dei Giochi Olimpici moderni; la gara era quella “principessa” dell’atletica leggera: i 200 m piani; il cronometro del vincitore si fermò a 19”83, scendendo per la prima volta sotto il muro dei 20”, e la pettorina del vincitore portava il numero 307; il terzo classificato, invece, indossava la pettorina numero 259: del secondo arrivato, l’australiano Peter Norman, nessuno ha memoria…perché lui non entrò nella storia…lui non diventò una leggenda…Gli uomini che salirono sui gradini più alto e più basso del podio rispondono al nome di Thomas C. “Tommie” Smith e John Wesley Carlos, entrambi satuinitensi; ma nomi, numeri e nazionalità non bastano a spiegare questa storia, non sono sufficienti…no, bisogna inserire un altro elemento: un guanto di pelle, di quelli che al solo guardarli mettono un po’ di apprensione, un po’ di timore, anche se del tutto ingiustificati…l’ultimo pezzo di questo puzzle è un colore, forse il più banale di tutti, ma anche il più controverso e simbolico: il nero; nero come la carnagione dei due corridori; nero come il guanto in questione…e allora eccola l’immagine che è entrata di diritto nella storia, che è diventata icona, mito: due atleti immobili che ascoltano l’inno nazionale scalzi, con il capo chino, la medaglia al collo, ed un braccio teso al cielo, non in segno di trionfo ma di sfida: la loro mano (destra per Smith, sinistra per Carlos), infatti, è foderata da un guanto nero, simbolo di lotta e ribellione, simbolo di voglia di riscatto ed accettazione, simbolo di una protesta portata avanti da un movimento parapolitico “made in USA” chiamato “Black Panthers”, che rivendicava diritti umani e civili per tutti gli afroamericani natti sotto l’egida dello Zio Sam; Tommie e John si fecero portavoce di quella protesta, divennero “testimonials” in un contesto completamente avulso da certe tematiche e scevro di ogni attività che non fosse sportiva: lo scalpore ed il clamore che fecero furono enormi: l’attenzione di milioni di spettatori fu spostata su una questione politica, sociale, essenziale; molti atleti partecipanti ai Giochi solidarizzarono con i due eroi e con la loro causa (lo stesso Norman si presentò alla premiazione con una targhetta per i diritti umani), e ciò non fece altro che accrescere i malumori in seno alle autorità statunitensi, e non solo: la questione era scottante, poiché mischiare sport e politica poteva portare a degli scenari del tutto inesplorati ( sono ancora lontane le edizioni di Monaco, con l’attacco contro la rappresentativa israeliana, o Mosca e Los Angeles ed i rispettivi boicottaggi russi e statunitensi…).
La repressione non si fece attendere: Smith e Carlos, tanto vincitori sul piano sportivo quanto trionfatori su quello sociale, furono immediatamente espulsi dalla squadra olimpica USA, e vennero allontanati celermente dal Villaggio olimpico: tutto ciò non fece che dare ancora maggior risalto al loro gesto ed alla loro causa, facendoli entrare di diritto nella Storia e nell’immaginario collettivo di intere generazioni.
 

 
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