Achille Campanile
“Il riso, nell’attimo che scocca, è anche empio”
  teatro - di Gabriele Mazzucco    
 
Questo mese raccontiamo una storia che ha avuto inizio da un’altra storia, ed è bene sapere, che la storia genitrice della prima ha per protagonista una donna. Una donna devota, una donna affezionata, una donna innamorata: una vedova che tutti i giorni, senza mai sgarrare, portava un fiore sulla tomba del marito prematuramente scomparso. Il caso volle che anche lei morì dentro al cimitero durante una sua “visita”.
Un giovane cronista de “La Tribuna”, poco più che alla prime armi, decise di trattare questo evento di cronaca di secondo piano intitolandolo: “Tanto va la gatta al lardo”.
Il responsabile della terza pagina del suo giornale (Silvio D’Amico) rimase dapprima stupefatto, poi non sapendo se avesse a che fare con un genio o con un pazzo decise di dare un’altra possibilità a questo umorista giovane e creativo.
Achille Campanile non la sprecò e pose qui le basi per il suo futuro successo. Giornalista, Drammaturgo, Romanziere e tutto rigorosamente con la lettera maiuscola, questo scrittore italiano nato a Roma nel 1899 è uno dei pochissimi inventori di un nuovo genere letterario. Anticonvenzionale per natura, l’autore in questione, ha lasciato a noi un patrimonio di ben 14 opere teatrali dal notevole spessore artistico: “Centocinquanta la gallina canta” del 1924, “La Spagnola” del 1940 e “Il povero Piero” del 1960 sono solo alcune delle opere che andrebbero assolutamente viste da qualsiasi fruitore o addetto ai lavori del teatro.
“L'umorista tra l'altro è uno che istintivamente sente il ridicolo dei luoghi comuni e perciò è tratto a fare l'opposto di quello che fanno gli altri. Perciò può essere benissimo in hilaritate tristis e in tristitia hilaris, ma se uno si aspetta che lo sia, egli se è un umorista, può arrivare perfino all'assurdo di essere come tutti gli altri "In hilaritate hilaris e in tristitia tristis" perché, e questo è il punto, l'umorista è uno che fa il comodo proprio: è triste o allegro quando gli va di esserlo e perciò financo triste nelle circostanze tristi e lieto nelle liete”.
Parole di un “battutista” che è entrato nel costume sociale italiano fino ad arrivare ai giorni nostri.
Chi non ha mai sentito in forma rielaborata (forse) strutture comiche come quella di seguito riportata: “Dove vai? – Dall’Arcivescovado e tu? – Dall’Arcivescovengo”. Oppure: “A New York c’è una via in cui ogni tre minuti viene investita una persona – Poverino non ha neanche il tempo di rialzarsi!”. O ancora quella in cui una stella dice ad un’altr: “Ma che vorrà da me quell’astronomo? – Perché? – Mi sta fissando da un’ora con quel cannocchiale”.
Cultore del paradosso venne stimato da Pirandello e da Montale prima, e da Umberto Eco, Giovanni Arpino e Oreste Del Buono poi, anche se, come quasi tutti coloro che comunicano tramite la comicità, fu per anni colpevolmente sottovalutato. Il segreto della sua forza? Per molti (per “assurdo”) proprio la sua logicità!
Perché attraverso la sua forte logicità, ogni ridicola convenzione sociale veniva da lui scandagliata e derisa fino a raggiungere i piani più fantastici dell’essere.
C’ho che non è vero viene così in aiuto del reale per svelarne l’illogicità; tutto viene chiaramente e cinicamente mostrato da una struttura apparentemente senza interesse per la realtà.
Scelta originale e coraggioso che ci ha consegnato un genio assoluto dell’arte nostrana e non solo.
Parlando della sua opera artistica Enzo Siciliano dà forse la più arguta e completa definizione: “Nei suoi lavori, il riso, nel momento che scocca, è anche empio”.

Empio (dal dizionario): spietato, feroce, scellerato, che reca offesa alla religione, blasfemo, sacrilego.

   
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