Condannati a essere filosofi
  turbamenti - di Gian Carlo Grassi    
 
Durante uno dei miei primi esami il professore mi chiese perché avessi scelto filosofia. Fu una domanda difficile alla quale risposi tout court balbettando qualcosa di banale soltanto per sfuggire a quella che era la scomoda verità: semplicemente non lo sapevo o quantomeno non lo avevo affatto capito. A poco a poco, nel tempo, queste tre parolette messe in forma interrogativa - perché-faccio-filosofia - hanno preso corpo rimbalzandomi in testa in maniera sempre più vivida e la ricerca della risposta è diventata l’attività primaria delle mie riflessioni.
Oggi, nel senso comune, la parola filosofia ha assunto un carattere misterioso, tanto che viene generalmente intesa come qualcosa di elitario che tanto bene si offre a quei masturbatori intellettuali, quasi come fosse il loro materiale pornografico. Si tratta di un oggetto affascinante distaccato dal mondo e che distacca dal mondo perché si pone al di fuori delle logiche di mercato, del quotidiano, dei problemi “reali” e interessarsene significa avere un hobby. Ecco: la filosofia come hobby è un'insensatezza. Possiamo intenderla come un’attività, certo, ma è un’attività alla quale non possiamo sottrarci. Posso scegliere se andare a pesca o se raccogliere o meno francobolli, ma non posso farlo invece quando si tratta di pensare, di decidere cosa è meglio per me o come affrontare questa o quella situazione. Sartre sosteneva che non possiamo fare a meno di scegliere: l’uomo sceglie continuamente chi progetta di essere e anche laddove non sceglie sta scegliendo di non scegliere. Dunque l’uomo è condannato ad essere libero.
Mi spingo oltre: l’uomo è condannato ad essere filosofo in quanto questa libertà non è altro che l’inevitabile possibilità di autodeterminarci data dalla filosofia. Noi progettiamo noi stessi ed è il giudizio a guidarci: creando l’uomo che vogliamo essere, creiamo allo stesso tempo un'immagine dell’uomo quale noi giudichiamo debba essere. La filosofia è un occhio sul giudizio, è prendere le distanze, è la neutralizzazione di quello che accade per una rielaborazione più obiettiva.
Quando siamo atteggiati filosoficamente (per dirla con Husserl) il mondo rimane sempre lo stesso, ma è ciò che scorgiamo dietro che si modifica e acquistiamo nuove consapevolezze. E queste ci riguardano, sempre.
 
 
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  La rivoluzione che immagino        
 
La storia dell'uomo è costituita non solo dagli eventi ma anche dal contesto culturale in cui tali eventi si inseriscono. Questi due aspetti si influenzano e si sviluppano vicendevolmente in un rapporto di feedback dove l'aspetto dominante è quello culturale in cui viene preparato il campo all'accadere. L'accadimento, a sua volta, inciderà poi sulle coscienze preparando il campo a nuovi accadimenti, e così via.
Il problema della donna e il suo ruolo nella società contemporanea è innanzitutto culturale dunque di coscienza. Come si può rivoluzionare le coscienze? Come possiamo eliminare quella credenza sotteranea che fa sì che vi sia un “problema donna”?
Nel secolo scorso movimenti femministi hanno protestato contro il sistema androcentrico e hanno scosso l'opinione pubblica. Ancora oggi ci si dibatte per rivendicare il rilievo della figura femminile e per emanciparla dai ruoli marginali cui è sottoposta nella vita pubblica.
Nel “pensiero femminista della differenza” si rivendica il riconoscimento della differenza sessuale come fatto che caratterizza essenzialmente le persone, e dunque richiede sul piano dei diritti, diritti sessuati e, sul piano della cultura, la necessità per le donne di rafforzare gli strumenti propri della femminilità.
Ecco che scopriamo come le donne abbiano qualcosa in più (la femminilità stessa o anche la funzione biologica che ha reso la donna capace di mettere al mondo il mondo) ed è proprio questo qualcosa che, si dice, debba essere valorizzato. L'esaltazione di questi valori è più che diffusa ed ogni occasione è quella giusta per manifestarli pubblicamente - basti pensare ai dibattiti, sempre attuali quanto vivaci, sulle quote rosa o al clamore suscitato dal caso ruby - e nascono fratture e maturano, in parallelo a nobili intenzioni, sentimenti ostili che certo non contribuiscono alla causa perché l'ipotetica e risolutiva rivoluzione culturale la immagino come una diffusione orizzontale dove maschio e femmina vengono compresi indiscriminatamente e senza distinzioni di genere, in maniera tale da non dover necessariamente delineare quei passi specifici che dovrebbero compiere da una parte l'uomo in quanto uomo per la rivalutazione del sesso opposto e, dall'altra, la donna in quanto donna per intendersi adeguatamente.
Infatti, in questa rivoluzione concetti quali l'essenzialità della figura femminile all'interno della società, sarebbero già integrati e incisi negli strati più profondi della coscienza di ciascun individuo in quanto già assunti a priori, in quanto dati ereditati dalla nostra cultura.
Il processo è già in atto e lo sarà sempre perché sempre vi sarà materiale per dibattiti filosofici sul modo esatto di concepire le differenze di genere e su come riportarle nella vita pubblica in accordo con le evoluzioni culturali che interesseranno le società dell'avvenire.
Ciò che adesso dovremmo fare è appunto preparare il campo tendendo verso qualcosa che non sia una soluzione univoca del problema (perché non esiste!), ma postulare l'inesistenza del problema, o meglio, postulare l'esistenza di un mondo dove dire che le donne e la loro femminilità sono un valore aggiunto per la società sia tautologico, sia dunque tanto ovvio quanto dire che il triangolo ha tre angoli o che i corpi sono estesi.