Design come interazione
design - di Martina Zanuzzi
 
 
 

In principio era solo un groviglio di fili. Un grande vuoto nero costellato di puntini colorati che squarciavano il buio lasciandosi dietro tracce luminose sottili come spaghetti. L’era emotiva stava per cominciare. Affacciati sull’immensità dell’emotional web con quel surreale affollarsi di pallini, Sepandar Kamvar e Jonathan Harris intuivano solo l'inizio di una nuova creazione, una galassia da popolare con faccine e cuori di centinaia di migliaia di internauti.
Torniamo indietro.
Tutto iniziò durante un viaggio on the road in Nord California quando, dopo l’ennesima birra, il discorso cade su Facebook . Nell' estate 2005 i social network erano una novità da esplorare e Harris e Kamvar, 25 e 27 anni, solo due visionari dell’informatica. «Il web stava diventando un concentrato affascinate di umanità e complessità. E loro avevano un’idea: mixare algoritmi, sentimenti e arte» racconta Sep, oggi docente di matematica alla Stanford University.
«Quel giorno decidemmo cosa fare: un programma che setacciasse blog e social network per intercettare due frasi chiave, I feel e I’m feeling. L’obiettivo era creare un database delle emozioni che visualizzasse con grafici, immagini e parole lo stato d’animo del mondo». Così, nel 2006, è nato We feel fine, un progetto che in quattro anni ha monitorato 12 milioni di sentimenti, collezionando le storie di un campionario umano di oltre due milioni di persone, suddiviso in base a età, sesso, città, nazione, stati d’animo e condizioni atmosferiche.
Una mappa emotiva online in continua evoluzione, in grado di captare il nostro coefficiente di felicità in tempo reale. La galassia di atomi impazziti da cui erano partiti Jonathan e Sep non era più soltanto un cielo a tinte fluo. L’avevano trasformata in una lavagna planetaria dove basta un clic perché ogni pallino esploda in una parola, e la parola in un’immagine, per arrivare finalmente a noi: ai racconti e alle foto disseminati nella blogosfera, e a chi quella parola l’ha postata magari un’ora prima.
«Per sentire dove batte il cuore degli abitanti del web», spiegano Kamvar e Harris, «era sufficiente un algoritmo». La prima sorpresa: che nella maggior parte dei casi chi si mette al computer lo fa per raccontare al mondo che quel giorno tutto sommato “sta meglio”. Un sistema tarato per monitorare un campione che si esprime in inglese, e in particolare gli internauti tra i 10 e i 60 anni, non può avere pretese di scientificità, ma le tendenze che emergono coincidono in larga parte con i dati forniti dai sociologi.

INTERVISTA A JONATHAN HARRIS E SEP KAMVAR

Perché la gente ha cominciato a raccontarsi sul web?
La spiegazione migliore l’ha data una blogger, Michelle Fry. Per lei si tratta di «un ottimo modo per sviluppare le idee senza l’ansia di una conversazione a tu per tu», liberi di scegliere i propri tempi e di seguire un pensiero alla volta. Commentando il fenomeno YouTube, anche l’antropologo Michael Wesch ha detto qualcosa di simile. E cioè che moriamo dalla voglia di metterci in relazione con gli altri, purché senza gli obblighi impliciti nei consueti rapporti interpersonali.
Tanto da rinunciare al concetto di privacy?
È evidente che l’abbiamo già fatto. I giovani americani in particolare hanno barattato il concetto tradizionale di privacy in favore di una nuova libertà, l’espressione di massa. Le pubbliche confessioni però non sono solo una cosa di oggi. A inaugurare il genere, non molto dopo l’invenzione della stampa, ci ha pensato Montaigne con i suoi Saggi. Una rivoluzione. Era la prima volta che qualcuno condivideva la sua intimità con centinaia di persone. Quello che voglio dire è che c’è continuità, che siamo figli di quella cultura e che in fondo non c’è niente di nuovo.
Con questo modo di comunicare ci stiamo abituando a pensare al plurale? Dalla parola io stiamo passando alla parola noi?
No, il web non significa questo. Sono aumentate velocità e vastità della comunicazione, ma le tecnologie che hanno potenziato l’ampiezza dei contatti spesso ne riducono la profondità.
Il titolo del vostro progetto, We feel fine, significa “stiamo bene”. Ne è proprio così convinto?
Se facciamo un passo indietro e osserviamo il quadro d’insieme, la sinfonia di tutte le nostre emozioni, emerge un tessuto comune, un’umanità che miscela sensazioni transitorie ma condivise. E in questo senso sì, posso dire che stiamo bene, perché nel mondo batte un cuore solo.
Questo è un lavoro senza precedenti. C’entra più la sociologia, l’antropologia o l’arte?
Tutte e tre le cose. We feel fine è un software, un’operazione artistica, una base sperimentale per le indagini dei sociologi. Fino a poco tempo fa sarebbe stato un mix impossibile. L’opportunità è arrivata con blog e social network.
Qual è il dato che vi ha colpito di più?
La relazione tra felicità e gratitudine. Quelli grati a qualcuno in realtà sono anche i più felici. È straordinario quanto la nostra rete di rapporti influenzi la vita emotiva. La maggior parte dei sentimenti che ci caratterizzano derivano dall’interazione con le persone più care.
Dalle vostre indagini emerge che gli anziani sarebbero più felici dei giovani. Perché?
Avere un futuro e parecchi ormoni in circolo non può non influire. I blog trasudano l’ansia esistenziale dei teeneager. Mentre le manifestazioni di gioia sono un po’ più frequenti man mano che si avanza negli anni, tristezza, odio e fastidio invece invecchiando calano drasticamente.
Dopo cinque anni passati a osservare le vite degli altri, che cosa è cambiato nella vostra?
Scrutare dall’esterno milioni di emozioni di milioni di persone sovrapponendo le loro vite ti dà un senso di prospettiva e di umanità condivisa. È una cosa utile.
Non vi siete messi a elaborare anche i vostri sentimenti?
No. Ma forse si possono dedurre da altri dati che abbiamo raccolto. Durante la stesura del libro ci siamo dati il cinque 147 volte, Jonathan è andato a farsi 286 nuotate, io mi sono comprato 56 confezioni di cheddar dolce a pezzetti. Invece il numero di persone che hanno scambiato le nostre email di invito al progetto per spam è talmente alto che abbiamo perso il conto.
Che rischi ha il social web?
Più stai al computer, meno hai tempo per sviluppare relazioni personali. Più entri nei meccanismi della comunicazione di massa, più sottrai ai rapporti individuali. La soluzione sta nel trovare un equilibrio tra le due cose.
Non teme che qualcuno possa strumentalizzare questo tipo di ricerche, per esempio a fini commerciali?
Certo, il rischio c’è. Come si monitora l’umore in una giornata di sole, così si può valutare l’indice di gradimento di una Pepsi o di un candidato alle presidenziali. Durante le elezioni del 2008, per esempio, avevamo chiaro chi avrebbe vinto in base alle emozioni suscitate dai vari contendenti. Un’indagine sui sentimenti è più facile da realizzare e meno cara di un sondaggio elettorale, e in futuro potrebbe rivelarsi uno strumento molto potente.
Chi comunica meglio online, gli uomini o le donne?
Le donne sono più brave a esprimere le emozioni, hanno un vocabolario più vasto e ricco di sfumature. Sono consapevoli e coinvolte nei rapporti di relazione e i loro post sono molto personali. Gli uomini hanno un approccio individualista. Parlano di potere, di successo, ma le parole che fanno da contraltare sono “inquieto” e “a disagio”. Le donne sono più facilmente preda di dubbi e tristezze, ma controbilanciano dimostrando affetto e gratitudine.
Chi è la persona più felice che ha trovato in rete?
Non ci sono dubbi. Il mio “socio”, Jonathan Harris.
Il web diventerà una nuova forma d’arte? Sì, e con tre caratteristiche straordinarie che nessun media e nessuna forma artistica hanno mai avuto prima: accessibilità, dinamismo e interazione.
È la strada per sentirci tutti più liberi?
Come dà la libertà, il web ha anche la capacità di toglierla. Per esempio quando sviluppa dipendenza. Per la tecnologia vale ciò che un monaco buddista disse al Nobel Usa per la fisica Richard Feynman in visita in Tailandia: «Ogni persona possiede la chiave che spalanca le porte del paradiso. Ma è la stessa che apre quelle dell’inferno».

 

fonte: designmind.frogdesign.com

 
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