Studio FormaFantasma è Andrea Trimarchi e Simone Farresin. Dopo una collaborazione iniziata durante gli anni del BA in comunicazione e design all’ISIA di Firenze, il duo si laurea nel 2009 con una tesi congiunta sull’artigianato folcloristico siciliano al termine del Master IM della Design Academy di Eindhoven, città dove ha sede Studio Formafantasma.
Secondo la loro visione critica del design – disciplina a cavallo tra artigianato e industria – la figura del designer deve analizzare le necessità locali e il contesto globale per stimolare una relazione critica tra utente e oggetto e per produrre opere che risentano degli elementi della tradizione e della cultura del luogo, senza perdere di vista il significato dell’oggetto come vettore culturale. I lavori dello studio sono stati pubblicati in riviste e volumi specializzati, esibiti in occasione dei principali eventi di design internazionali (Salone Internazionale del Mobile di Milano, ICFF NY, Design Miami/Basel, Abu Dhabi Art, Sotheby’s London) e fanno attualmente parte delle collezioni di prestigiose gallerie e spazi espositivi nel mondo, tra i quali Droog Design, Spazio Rossana Orlandi, Moss Gallery, Gallery S. Bensimon e I.T Hong Kong. Hanno collaborato per Nodus e Flat Design. La loro mostra Autarchy è stata ospitata nel 2010 nei cinque continenti.
www.formafantasma.com
Oggi ai designer, anche a quelli che lavorano per
l’industrial, sono richieste competenze di processo
altissime. Sul mercato si muovono nuove realtà
industriali senza industria alle spalle. Quando un
progettista viene incaricato di un progetto, spesso deve
provvedere in qualche modo a individuare e garantire
anche una filiera, magari con l’imposizione di un
costo finale al pubblico. Che cosa pensate di questo
scenario?
A: Questo tipo di dinamica esiste anche nelle produzioni
su commissione delle gallerie che producono design-art in
edizione limitata. È tutto molto diverso dagli anni Settanta,
quando le aziende erano aperte all’innovazione e facevano
ricerca in proprio. È comunque vero che nella riuscita di
un progetto è sempre più importante il rapporto che riesci
a instaurare con il tuo committente. Quando abbiamo
lavorato con Droog Design, la cosa che ha fatto veramente
la differenza è stata la volontà di fare un progetto a
prescindere dal costo. Il marchio londinese Established &
Sons funziona anche se ha una fascia di prezzo molto alta,
perché è riuscito a conquistare una clientela sensibile e
attenta allo stile.
Design Gallery e design-art: fenomeno in ascesa o in
declino?
A: È un fenomeno sempre esistito. La crisi economica
ha ovviamente complicato le cose e l’idea del designer
superstar non interessa più a nessuno. Il mercato esiste,
ma è una nicchia. I collezionisti si stanno raffinando
e acquistano design con la stessa attitudine con cui
investono in arte. Questo permette ai designer di allargare
il proprio campo di indagine.
Parliamo di Autarchy, il vostro primo progetto post
master, da subito accolto con grandi consensi a livello
internazionale.
A: Con Autharchy abbiamo cercato di immaginare una
società che produce solamente con le proprie risorse
gli oggetti quotidiani di cui ha bisogno. La collezione è composta da vasi, ciotole e lampade realizzati con
impasti a mano di bio-materiale. Per la precisione si tratta
di 70% di farina sorgo, 20% di scarto agricolo e per il
restante 10% calce naturale. Per ricavare questi materiali
abbiamo bollito verdure e spezie. Quindi le abbiamo
essiccate naturalmente. L’obiettivo finale era dimostrare
come con pochi materiali fosse possibile ottenere oggetti
esteticamente belli, funzionali e sostenibili. Una società
consapevole deve creare una nuova generazione di
prodotti fortemente legata a un’idea di tecnologia leggera.
Genesi del progetto?
S: Era il 2009, eravamo in Sicilia, a Caltagirone, un
importante distretto della ceramica: stavamo lavorando a
Moulding Tradition, il nostro progetto di master. Un giorno
siamo andati a Salemi, un paesino nella zona orientale della
Sicilia, dove nel solco della tradizione popolare vengono
festeggiate le Cene di San Giuseppe. A Salemi esiste un
archivio fantastico. Sfogliandolo, abbiamo preso coscienza
della qualità con cui persone comuni usavano le loro abilità
per lavorare il pane. Al di là del gusto naïf, confrontare
questa qualità di processo con una certa produzione di
ceramiche è stato piuttosto sbalorditivo. A sorprenderci è
stata la spontaneità senza pretesa artistica.
A: Quando siamo rientrati a Eindhoven abbiamo provato
a fare una ciotola, non avevamo niente. Abbiamo usato
sale e farina, poi l’oggetto è rimasto lì. Abbiamo concluso
la tesi e a distanza di tempo l’abbiamo rivisto, chiedendoci:
perché non proviamo a vedere se riusciamo ad andare
oltre, come a Salemi, dove fanno quello che fanno con
nulla? Ci siamo documentati e in rete ci siamo imbattuti
in una second-life popolata da persone che si scambiano
ricette per fare la pasta alla carbonara, la bioplastica fatta in
casa e altro ancora, sottolineando il bisogno di condividere
e di essere parte di un processo. Il passo finale è stato quello
di dare a questa intuizione un contesto più ampio. Quando
abbiamo esposto da Rossana Orlandi, a Milano, potevamo
presentare il tutto sulla superficie di un tavolo, invece
abbiamo scelto uno scenario più utopico, sottolineando
come la Natura possa produrre cibo, ma anche oggetti.
E come è andata?
A: Per noi è molto interessante costruire un contesto
attorno al progetto: forse è la cosa che ci interessa di più.
Nel design non esiste solo un momento di consumo;
puoi far passare delle idee in modo più complesso, più
visionario. Per Autarchy, la sfida è stata quella di portare in
mostra oggetti semplici come una scopa di saggina e del
pane. E farlo non in un museo, ma durante una fiera del
design industriale.
S: La gente non se lo aspettava. Molte persone sono
rimaste piuttosto sorprese che anche una cosa così potesse
essere design. In modo particolare le aziende. I nostri
oggetti sono archetipi: non abbiamo fatto una ricerca sulla
forma, ma sui materiali.
A: Molti designer lavorano ormai solo sulla ricerca di
una nuova forma. Non è il nostro caso. Secondo molte
persone, comunque, il nostro lavoro è molto rifinito.
E lo è?
S: Piccolo segreto: a Milano vasi e bottiglie non erano
waterproof. Ora che abbiamo risolto il problema possiamo
confessarlo!
Scusate la curiosità: come l’avete risolto?
A: Grazie alla Colophonia.
Cioè?
A: Resina di pino.
Come/dove avete scoperto l’esistenza della
Colophonia?
S: Biblioteca, blog: cercando online. Le cose sono più
semplici di quanto si creda. |
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