Dalla seconda metà dell’Ottocento l’arte italiana nutre un diverso e più sentito interesse per il sociale, iniziato già nel 1848 in seguito alla pubblicazione del “Manifesto del partito comunista” di Marx ed Engels. Con l’Unità d’Italia nel 1861 si viene a creare una nuova situazione socio-economica che metterà ancora più sotto i riflettori la questione delle classi meno abbienti. Di certo l’interesse verso i lavoratori, i poveri e le precarie condizioni in cui vive il popolo non nasce solo ora, basti pensare alle rappresentazioni sofferte della realtà in celebri tele quali “Gli spaccapietre” di Courbet e “Le spigolatrici” di Millet, ma cambia il tono ed il modo di trattarlo. Se prima le scene rurali e spiacevoli erano evocate quali aneddoti edificanti con il preciso intento di sottolinearne il valore morale, ora appaiono più come una secca denuncia, una protesta nei confronti dello Stato. Prende forma quella volontà di riscattarsi da un’inevitabile destino a cui molti sembravano destinati. Sembra superata quindi quella concezione vittimistica del lavoro dei primi del secolo, mentre si preferisce dare una voce dignitosa a chi conduce quotidianamente una vita precaria.
Non va dimenticato peraltro che questo sentimento è profondamente legato alle vicende storiche di un’Italia postunitaria ancora in fase di assestamento: ad esempio, nel 1881 viene fondato il Partito operaio italiano, che inaugurerà quel susseguirsi di scioperi a noi oggi tanto noti. Sono queste dunque le premesse che porteranno l’arte a sfondo sociale a toccare i massimi livelli espressivi. Nascono tele imponenti come “Il Quarto Stato” (1898) di Giuseppe Pellizza da Volpedo, pittore divenuto divisionista in seguito ad un iter partito dal realismo e maturato attraverso l’influenza delle opere di Segantini e Previati. Il quadro, di dimensioni maestose (293 x 545 cm), è frutto di un lavoro decennale che ha visto come tappe intermedie una serie infinita di schizzi di scioperanti ritratti dal vero e di dipinti come “Ambasciatori della fame” e “Fiumana”. La realtà dell’episodio di cronaca effettivamente accaduto (una manifestazione di contadini) non contrasta con il concetto di “ideale”, bensì vi si integra a tal punto da trasformarlo in una celebrazione allegorica. I tratti somatici delle figure sono distinti e singolari proprio perché ripresi da veri braccianti di Volpedo, borgo natale dell’artista in cui la scena è ambientata. L’uomo al centro, l’anziano a sinistra, e la donna con bambino a destra, simbolo di rinascita, rappresentano ogni possibile sfaccettatura della classe operaia. La semplicità degli abiti delle comparse (la donna addirittura a piedi nudi) ed il paesaggio pressoché scarno, si contrappongono invece alla lenta ma dignitosa avanzata dell’insieme. Pacifici ma determinati, poveri ma moralmente integri, i lavoratori sono persone che il pittore ha conosciuto nella Società agricolo-operaia di mutuo soccorso di Volpedo. Il loro intento non è di impietosire, ma di marciare uniti verso una nuova società egualitaria che riconosca i loro diritti. Persone che vivono e agiscono con la speranza, oltre che la fiducia, di poter avere di meglio dalle loro esistenze, di non essere forzatamente legati alla terra, di non appartenere ad un ceto sociale con la stessa netta divisione e rassegnazione delle caste induiste.
Il “quarto stato” delle masse popolari si contrappone quindi al “terzo stato” della borghesia, la stessa che durante la Rivoluzione francese si era scagliata contro aristocrazia e clero. Mutua però il sentimento; una consapevolezza tale che non si traduce in atteggiamenti violenti e scomposti.
Purtroppo la situazione economica che al giorno d’oggi viviamo fa sì che le condizioni in cui si trovano i precari non si discostano poi di tanto dai contadini sopracitati. Sulla questione dignità, invece, ho seri dubbi.