Giorgio de Chirico e l’Italia “inquietante”
  arti visive - di Francesca Pierucci  
 
 
Prendete una piazza d’Italia, una qualsiasi, quella a voi più cara o magari la più nota. Ora immaginate di spogliarla di ogni eccesso: nessun negozio, nessun albero, nessun cartellone pubblicitario, nessun mezzo di trasporto. Una città senza traffico direte voi, un paradiso! Sostituite alle macchine ed ai motorini treni di pochi vagoni in lontananza, ai sanpietrini a noi romani tanto cari un pavimento monocromo, al cielo di fine estate una fascia opaca verde scura. L’immagine che avrete formulato, per quanto bizzarra, sarà però ancora accompagnata da quell’eterno sottofondo sonoro tipico della città metropolitana, decisamente caotica. Mettetela in muto. Ora prendete una tela di Giorgio de Chirico (1888-1978) della serie delle “Piazze d’Italia”, e vi sembrerà di avere trasferito il vostro pensiero su tela. Un forte effetto di spiazzamento è il sentimento che maggiormente ci pervade quando osserviamo questi scorci quasi deserti ed assolati, in cui edifici, statue, oggetti comuni e uomini-manichino si dispongono spesso senza una logica. A differenza di tanti dipinti delle Avanguardie artistiche del Novecento, l’apparente familiarità dei soggetti delle sue tele invitano ad andare oltre la superficialità della visione immediata, ad analizzarne in maniera approfondita il contenuto ricercandone le motivazioni celate. Occorre dunque fare un passo indietro nella vita dell’artista. Nato a Vòlos in Grecia nel 1888 da genitori italiani, de Chirico trascorre la sua infanzia tra la città natale e Atene, tra quell’arte ellenistica moderna e antica così facilmente riscontrabile nelle architetture e nelle statue inserite nei suoi quadri. Dopo Firenze, Venezia e Milano si trasferisce a Monaco, dove rimane affascinato dagli scritti di Schopenhauer, Weininger, ma soprattutto dal pensiero di Nietzsche, di cui condivide l’idea della Grecia quale culla della civiltà occidentale. La differenza che il filosofo tedesco individuava tra la tristezza e la malinconia (la prima esclude il pensiero, il secondo se ne alimenta) porterà il pittore alla formulazione della pittura metafisica, pittura “al di là della fisica”. L’adozione del termine in realtà è dovuta all’altro grande maestro di questo movimento artistico Carlo Carrà, con il quale egli intendeva la volontà di raggiungere, tramite l’arte, una realtà trascendente, situata oltre quella esplorabile attraverso i sensi. Dal 1910-1911 il giovane de Chirico metterà a punto il proprio repertorio di immagini inquietanti ed enigmatiche pervase da quella ricerca del significato e dello scopo dell’esistenza, e dall’eterno mistero della vita e dell’arte. Proprio dall’incapacità di trovare soluzioni esaustive a tale enigma nasce la profonda malinconia dell’autore e la serie delle “Piazze d’Italia”.
Riprendete l’immagine nella vostra mente; nonostante le differenze soggettive che si possono riscontrare, certi canoni standard di proporzioni e profondità a voi sembreranno ovvi, logici. Invece in queste tele non è cosi. Apparentemente potrebbe trattarsi di semplice vedute urbane, realizzate con uno stile che potrebbe ricordare Giotto piuttosto che i pittori toscani del XIII e XIV secolo. Eppure porgendo un ulteriore sguardo è possibile riscontrare delle anomalie quasi angoscianti. Saltano agli occhi gli errori volontari nella costruzione prospettica tali da deformare l’immagine complessiva; un mutismo persino in quelle tele in cui si scorgono treni in lontananza (ricordo dell’infanzia trascorsa nel cantiere ferroviario con il padre in Grecia); un senso di ansia e disagio pervade le composizioni. Ombre nette, diagonali, la mancanza di quel senso umano che invece rende le nostre piazze degli esempi di vita vera. Non bisogna altresì dimenticare che questa serie verrà continuata per quasi l’intera lunga vita dell’autore, il quale in fondo visse in età già matura ben due guerre mondiali.
La città di Ferrara, governata per quasi tre secoli dagli Este, culla dell’illustre scuola pittorica e architettonica ferrarese, pur rimanendo di fondamentale importanza nell’elaborazione della pittura metafisica, viene però ridotta a mero sfondo di alcune tele. Eppure de Chirico la considerava “quanto mai metafisica”, “lussuriosa”, tanto vicina al fantastico quanto in realtà ancorata ad una quotidianità tipica dei piccoli centri.
La celeberrima tela de “Le muse inquietanti”, dipinta nel 1918, ha senza ombra di dubbio chiari riferimenti alle precedenti “Piazze”, ma la realtà è ormai rappresentata in maniera ancora più lontana. Sullo sfondo l’inconfondibile fortezza che fu residenza degli Estensi, simbolo di un passato glorioso ormai malinconicamente evocato, viene accostata da una moderna fabbrica con due ciminiere. Un pavimento quasi ricoperto di parquet. In primo piano tre statue-manichini, inizialmente battezzate “le vergini inquietanti”. Certo, la facoltà di poter trasformare chi ci infastidisce in semplici pezzi di marmo non risulterebbe a volte poi cosi antipatica. Ma tutto sommato, osservando a fondo il dipinto, il rumore del traffico della città reale oggi non mi sembra poi così insopportabile.

 

 
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