Evasioni Tahitiane: Paul Gauguin
  arti visive - di Francesca Pierucci  
 
 
Se vi dicessi la parola Polinesia, cosa vi verrebbe in mente? Magari la mèta di un viaggio di nozze, un volo infinito, la distanza ideale per una vera e propria evasione dallo stress del lavoro e della vita di tutti i giorni, o casomai il luogo adatto per quel famoso chiosco che tutti prima o poi millantano di aprire, abbandonando ogni legame con la realtà. Sabbie bianchissime, mare cristallino, bungalow-palafitte costruite direttamente in mezzo all’acqua, senza doversi neanche sforzare di arrivare alla spiaggia; frutta esotica, tramonti mozzafiato, l’odore del cocco della crema doposole. Eppure tra i grandi “evasori” nell’arte, Paul Gauguin (1848-1903), riuscì a cogliere degli aspetti dell’isola di Tahiti che poco o nulla hanno a che fare con la nostra idea di quel paradiso così lontano. Gli anni e i luoghi in cui dipinge sono caratterizzati da un gruppo di pittori e scrittori “maledetti” che trova spesso ispirazione e motivo di trasgressione nelle droghe o nell’alcol. Basti pensare a quanti morirono avvelenati o nei guai a causa di qualche bicchiere di troppo o ad un uso eccessivo di fée verte (la “fata verde”), come veniva comunemente chiamato l’assenzio: Van Gogh, Toulouse-Lautrec, Modigliani fra i più celebri. Gauguin probabilmente scelse invece la soluzione più saggia: viaggiare. Fin da piccolo conduce una vita inconsueta, internazionale; nato a Parigi trascorre i primi anni in Perù presso i familiari della madre, dove entra nella marina militare spostandosi continuamente fra l’Europa e l’America meridionale. Nel 1872 si trasferisce definitivamente nella capitale francese, dove entra in contatto con il circolo impressionista, all’interno del quale individuerà come guida l’amico Pissarro, per poi avventurarsi con gli anni verso le soluzioni plastiche di Cézanne e la precisione del disegno di Degas. Ma è solo dopo aver abbandonato Parigi che in lui prende corpo quella nuova consapevolezza dei propri mezzi che lo porterà ad allontanarsi sempre più dalla maniera impressionista e a perfezionare uno stile autonomo e personale. Dal 1886 soggiorna a Pont-Aven, dove trova un esempio di natura autentica e primordiale che si contrapponeva in maniera decisa alla vacuità delle mode parigine; riprende e riscopre forme dure ed essenziali derivanti da modelli arcaici, medievali e popolari. Alternerà i periodi in Bretagna a viaggi a Panama e in Martinica, ma grazie all’incontro con il giovane pittore Emile Bernard Pont-Aven si distinguerà sempre più per alcune scelte di stile, seppur non prendendo mai la forma di una vera e propria scuola pittorica. Il villaggio bretone diventò mèta di artisti in cerca di un contatto diretto con la natura, tuttavia rappresentata attraverso un uso antinaturalistico del colore, spesso carico di valore emozionale e simbolico. Tra ottobre e dicembre del 1888 Gauguin si reca ospite ad Arles in Provenza presso Vincent Van Gogh, anch’egli fuggito dalla vita frenetica parigina alla ricerca di una nuova ispirazione. Ma l’insofferenza del pittore olandese a farsi accettare in un ambiente provinciale e la smisurata aspettativa della convivenza con Gauguin, causarono in quest’ultimo ben presto il desiderio di tornare in città ed al padrone di casa una crisi tale da portarlo a mutilarsi l’orecchio sinistro. Durante l’Esposizione universale del 1889 a Parigi Gauguin promuove una mostra indipendente al “Caffè Volpini”, nella quale si palesa l’avvenuta rottura fra i pittori dell’Impressionismo storico ed i nuovi simbolisti, spinti dalle nuove ricerche stilistiche dell’artista e di Bernard. Il rifiuto per l’ambiente ed il fascino dell’oltreoceano lo porteranno a soggiorni sempre più lunghi a Tahiti e nelle Isole Marchesi, dove inaugurerà la sua stagione di maggiore fecondità artistica. Si pensi a uno dei capolavori nati durante questo periodo: “Ia Orana Maria (Ave Maria)”. Un esotismo carico di valore simbolico e personale, sicuramente visionario. Egli non riproduce in effetti le condizioni di vita difficili in cui viveva, ma evoca un’isola immaginaria, incantevole, alimentando quel mito letterario dei paesi lontani così in voga negli ambienti parigini di fine ‘800. Le meravigliose ragazze tahitiane sono immortalate nei loro atteggiamenti più semplici e quotidiani, figure essenziali, quasi idealizzate. Un Eden coloniale in cui si svolge un’insolita Annunciazione, così definita dallo stesso Gauguin: “un angelo dalle ali gialle indica a due fanciulle tahitiane Maria e Gesù, anche loro tahitiani – nudi, vestiti di un pareo”. L’angelo e la figura di Maria con il Bambino ricordano l’iconografia cristiana e medievale, mentre le espressioni sorprese delle figure femminili alludono ad alcuni rilievi del tempio giavanese di Borobudur. Pur non riuscendovi in pieno, a causa dell’impossibilità della pittura di riprodurle, lo scopo ultimo dell’artista è di accentuare di quel mito letterario sopracitato la purezza ed il primitivismo. L’insieme della composizione emana una religiosità naturale incredibile, un’attenzione meticolosa alle credenze popolari ed al confronto che si instaura tra l’essere umano e la divinità. Se dalla semplice volontà di evadere dal caos cittadino nascono capolavori simili, non posso dire altro se non: che Tahiti sia!
 


 
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