Intervista a Sergio Givone
  turbamenti - di Gian Carlo Grassi  
 
 

Sergio Givone fu allievo di Pareyson. Oggi è ordinario Estetica all’Università di Firenze e, oltre ad aver pubblicato sia saggi quanto romanzi di successo, è da considerarsi fra i pensatori più importanti del nostro Paese. Qui ha concesso un intervista esclusiva per la nostra rivista.

Parliamo di arte. La prima domanda alla quale volevo sottoporla è la seguente: qual è lo stato di salute dell’arte?

Questa è una buona domanda. Credo che oggi come non mai l’arte stia cercando di definire se stessa. Non sappiamo esattamente che cosa sia l’arte. Le faccio un esempio sollevato a seguito di alcune installazioni all’ultima biennale di Venezia: è ancora arte un’arte che non comporta più l’intervento della manualità, il fare, il fare fabbrile? Ci sono delle installazioni che non prevedono più Il fatto che l’artista sia quello che mette mano sulla materia e la elabora, la trasforma, ne imprime uno stile e ne fa scaturire attraverso questa operatività, un’opera. Queste installazioni consistono semplicemente nello spostamento di realtà materiali le quali poi non vengono neanche ricomposte, il che potrebbe ancora voler dire: intervento manuale dell’artista. Invece no. Sono quelle che sono. Messe lì. Già Beuys 50 anni fa aveva preso delle pietre e le aveva scaricate casualmente. Delle pietre non scelte perché belle ma semplicemente perché pietre. Questo gesto a che titolo lo definiamo artistico? Un’installazione su base puramente informatica, cioè un’installazione che presuppone degli automatismi, non solo dei meccanismi, ma dei veri e propri automatismi che vanno al di là delle stesse intenzioni di chi avvia questi processi, è o non è arte? Oggi l’arte, nel suo fare, è in un momento di ricaduta su di sé, di riflessione sul proprio stato ed è per questo che prima ancora dello stato di salute bisogna capire qual è lo stato dell’arte. Lo stato non dovrebbe essere messo in discussione per rispondere al questa domanda. Se lo stato è questo è in salute o non è in salute? Oggi invece è proprio lo stato ad essere messo in discussione.

Lei si riferiva alla biennale dove il padiglione italiano ha fatto molto discutere. Come giudica quella che è la nostra attuale proposta artistica?

Non mi sembra un gran momento. Non che oggi non si faccia arte, anche arte di alto livello, però c’è un abisso tra coloro che producono qualcosa di risaputo e coloro che davvero si interrogano sullo stato dell’arte e cercano nuove strade. Certo, importa poco cercare o non cercare nuove strade. Importa se le trovano o non le trovano. C’è chi ha trovato qualche cosa, qualcosa di fronte a cui io resto urtato, colpito, emozionato. Un nome su tutti: Kiefer. Per quanto riguarda l’Italia invece direi Paladino e aggiungerei anche Kounellis che è nato in Grecia ma che dagli anni ’50 lavora nel nostro paese.
Quando sento l’aria di déjà vu, di ripetizione, penso a Cattelan, penso alle opere di Hirst quando immerge uno squalo nella formaldeide o quando riempie un teschio di diamanti. Cose che lasciano il tempo che trovano. In questi nomi, io vedo un gioco futile, spesso compiaciuto, dove invece di andare in fondo alla questione, di rinnovare e di riproporre, ci si accontenta dell’esistente. C’è poco senso critico. Mi pare che tra Kiefer e Hirst ci sia proprio quell’abisso che dicevo, due mondi diversi, anche se poi li consideriamo entrambi parte del grande mercato dell’arte contemporanea, che spesso è molto mercato e poco arte. Molto in funzione di un riscontro mercantile e molto poco in funzione di un rinnovamento dell’arte.

Se dovessimo gettare uno sguardo estetico sul mondo e sulla crisi globale, muovendo dal processo di estetizzazione, quale sarebbe il suo giudizio?

E’ proprio qui che quella divaricazione si fa talmente vasta che i due canali, le due linee di scorrimento non si incontrano più. C’è questa crisi di fronte alla quale uno si immaginerebbe un’arte capace davvero, come diceva Klee, di risalire al caos originario. Invece che cosa fa quest’arte? E’ sempre più ludica e giocosa. Ci sono oggetti i cui prezzi schizzano alle stelle e che hanno quel valore solo perché qualcuno manovra il mercato che sta sotto. E allora come spiegare questa schizofrenia tra un’arte che pure c’è ed è capace di dire, di farsi tramite di questa crisi e un’arte che invece con la crisi ci gioca e la occulta e la nasconde. E’ uno stato schizofrenico. Mettiamo sullo stesso piano Hirst e Kiefer quando invece sono agli antipodi. Già 50 anni fa questa doppia tendenza era già presente con Beuys da una parte e Warhol dall’altra.

E noi quali spettatori e fruitori di quest’arte schizofrenica, come dovremmo relazionarci a questa situazione?

Dobbiamo appunto cercare di capire che non tutto sta sullo stesso piano, che tutto ciò che il cosiddetto circuito delle opere d’arte mette nello stesso calderone in realtà apre su direzioni diversissime. Tutto ciò che discende da Beuys da una parte e da Andy Warhol dall’altra, va in direzione opposta - quest’ultimo, per inciso, a differenza dei suoi “nipotini”, era davvero un artista, mentre loro hanno seguito quel tipo di rapporto con la realtà, realtà come svuotata di ogni senso, in modo puramente imitativo e ripetitivo - Insomma, sta a noi capire che siamo di fronte a risposte completamente diverse date allo stesso problema. Il problema è quello che diceva lei prima. Il problema è l’estetizzazione. Questa ha prodotto il mondo delle merci così come lo vediamo: solo ciò che è bello è degno di essere comprato. Ma allora, che tipo di bellezza è questa? Si tratta di una bellezza che serve a produrre oggetti da consumare. Quell’applicazione degli stilemi che abbiamo visto a partire da Warhol con la moltiplicazione delle immagini oggi si applica alla costruzione di un negozio. Se lei va in via Tornabuoni non vi troverà differenza tra i negozi e le gallerie d’arte. In quei negozi lei vede spesso applicati dei modelli, degli stilemi appunto, che vengono da un certo tipo di arte. L’arte che gioca con le cose e trasforma le cose in immagini, le immagini in emozioni, le emozioni in strumenti mercantili e così via.

Questo processo che lei sta descrivendo, il mercato dell’arte, è in qualche maniera controllato o controllabile?

No. E’ un po’ come il terrorismo. Si pensa che ci sia una centrale del terrorismo da qualche parte. Il terrorismo e l’arte sono impossibili da prevedere e anche non controllabili. Si va a cercare la centrale del terrorismo in Afganistan. Non dico che Al Qaeda non esista, ma non è quello il punto. Un po’ come quando durante gli anni di piombo qui in Italia si cercava il Grande Vecchio. Non c’era nessun Grande Vecchio. Questi processi noi li osserviamo, non c’è niente da controllare. Le previsioni possono essere fatte soltanto facendo quello che stiamo facendo io e lei in questo momento: cercare di capire che cosa sta accadendo.

E in questa ricerca si può essere ottimisti?

Ottimismo e pessimismo sono due categorie che non mi convincono tanto perché l’ottimista è quello che ha trovato un punto di vista superiore: “tanto le cose si aggiustano!”. Idem il pessimista che lo ha trovato nel “tanto andrà sempre peggio”. Ma chi li autorizza a trovare questi punti di vista superiori? Nessuno. Come non esiste il Grande Vecchio, come non esiste la centrale del terrorismo così non esiste nessun punto di vista superiore. Esiste la speranza, la speranza che non sia tutto finito. Allo stesso modo esiste la disperazione derivata ad esempio dal porsi di fronte a una crisi violenta e grave come quella che stiamo vivendo. Andiamo a vedere di volta in volta. Non dobbiamo cercare quei punti di vista che poi non sappiamo come fondare o come giustificare. L’ottimista e il pessimista possono passare tutta la loro vita a dire “ho ragione io!” e viceversa. Bisogna confrontarsi con le cose e criticarle. La critica è un’attenzione costante, è la prontezza a rimangiarsi quello che si era appena sostenuto. C’è una tradizione, penso a Benjamin e a quei filosofi che hanno fatto dell’attenzione critica il proprio metodo per monitorare la realtà. La realtà è più importante della nostra coscienza o della nostra filosofia. La filosofia deve essere umile. La realtà ci sorprende, non sappiamo che cosa sia, che cosa ci aspetta domani. Ripeto: andiamo a vedere! Nessuno dispone di una griglia o di un modello di comprensione da applicare e che va sempre bene. Ottimismo e pessimismo sono questo modello di comprensione che viene applicato.

A volte però è molto più rassicurante.

 




 
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